IL SILENZIO (cinque artisti di clausura si confessano)

MuseoLaboratorio – ex manifattura tabacchi – Vico Lupinato 1, 65013 Città Sant’Angelo (PE)
28 ottobre – 25 novembre 2006



Il silenzio è il titolo di questo progetto espositivo, un titolo che, inequivocabilmente, ci richiama la vicenda e la storia del Museo-Laboratorio. Perché, è bene ribadirlo ancor prima di essere una manifattura tabacchi, lo spazio che oggi promuove manifestazioni sullarte contemporanea, accoglieva un convento dedito alla clausura, per la precisione un convento di suore Clarisse. Sappiamo bene che sia nei monasteri che nei conventi, era fondamentale, per i loro abitanti, attenersi ad una regola, vale a dire quella sul silenzio, fonte di ispirazione e di purificazione spirituale Ovviamente, il termine silenzio suggerisce ed è legato strettamente a quello di solitudine: non a caso, gli artisti che ho coinvolto per questa avventura, possono con tutta franchezza essere considerati dei solitari, poiché hanno condotto la scelta, alquanto coraggiosa e disincantata, di starsene per così dire fuori dal coro. Questi cinque artisti, anche se apparentemente sembrano tra loro distanti, hanno però in comune una cosa importante: quella di aver intrapreso una strada difficile, coraggiosa: non si sono fatti mettere nel sacco dalle mode più imperanti e futili e dalle etichette più scontate, ma hanno preferito porsi in aperta discussione, ed affrontare coraggiosamente, anzi affrontando, le proprie emozioni. Il loro è un dialogo introspettivo, alquanto lirico e sentimentale, un espediente per mettersi continuamente alla prova, appunto, Larte, il fare arte viene visto e vissuto come un rigenerante esercizio, capace questo di far riscoprire gli aspetti più invisibili e nascosti, ciò che circonda luomo ma che luomo, per indifferenza o peggio distrazione, raramente riesce a cogliere


La dimora del Pane

Se osserviamo la grande allegoria dipinta da Brueghel, ovverosia il trionfo della morte, noteremo in questo dipinto raffigurato un misterioso oggetto, trascinato a forza da un sinistro scheletro: una pesante cassa in legno, munita di ruote, in cui allinterno giace la vittima della più nefasta carestia. A distanza di secoli, oggi quella cassa ha assunto una forma ancora più essenziale e pulita, le ruote la rendono una struttura nomade, spostabile, ma quello che colpisce è ciò che raccoglie al proprio interno: dentro sono disposti ordinatamente tutta una serie di pani scuri, quasi bruciati, in terracotta dipinta con catrame. Lorenzo Fontanelli, lautore di questa scultura, si è sì ispirato alla bara di Brueghel, ma per lui questa è stata uno spunto per elaborare unopera aperta a molte altre letture. Inizialmente, il suo intento era del tutto privato, ovvero quello di rendere un doveroso omaggio alla morte di un parente. Ma attraverso questo ricordo - sapendo che la morte ti lascia sempre fame dello scomparso - Fontanelli sembra alludere ad una più estesa carestia dellanima, che oggi percorre il mondo contemporaneo. Si può parlare, allora, della sepoltura del pane: non a caso questi pani bruni (metafora, questa, di una creatività essiccata) addossati dentro la bara, sono un segno, una metafora appunto, così come è una sottile metafora il titolo stesso dellopera (la dimora del pane è, secondo la lingua semitica beth-lehem, vale a dire Betlemme). Fortemente legata a questa scultura, è laltra opera esposta: a prima vista, loggetto in questione ci richiama ad unacquasantiera. Su di una base in pietra si erge una piccola, ma solida architettura in mattoni, una costruzione semplice, razionale, quasi primitiva. Il visitatore è chiamato ad interagire con lopera, a intingere le proprie dita nellolio e a ungere larchitettura, in un gesto dal sapore sacro, mistico - un gesto, questo, tipico di certi devoti che, nelle chiese, hanno lusanza rituale di baciare o toccare le mani e i piedi stimmatizzati delle statue dei Cristi.Tornando allopera in questione: anche in questo caso, Lorenzo è partito da un ricordo personale, legato alla figura del padre, scomparso molti anni fa. Difatti, questa piccola scultura nasconde un segreto: anche se nessuno potrà vederlo, ma la suddetta architettura è cava allinterno. Proprio qui lartista ha nascosto uno strumento di lavoro che apparteneva al genitore, una cazzuola, visto che quando era in vita faceva di mestiere il muratore. Quindi, larchitettura è in verità unurna che contiene nel proprio interno un ricordo, una reliquia da conservare a futura memoria. Se nella scultura precedente, il pane secco e cotto, coperto da una patina scura rappresenta simbolicamente lopera del cognato, che faceva il fornaio, invece la piccola casa -contenitore, arcaica ci racconta limpegno e la fatica del padre. In fondo, dal padre e dal cognato, Lorenzo ha appreso un discorso legato alla manualità, a quel saper fare di cui lo stesso artista ne ha fatto da necessità, una virtù. Se noi osserviamo le opere scultoree di Fontanelli, emerge subito quella volontà, da parte dellartista, di volersi misurare con la dimensione prettamente artigianale delle cose, dei manufatti, e nello stesso tempo, grazie al discorso manuale, di estrapolare da questi oggetti laspetto più spirituale, simbolico. In fondo, a Lorenzo interessa la storia che la scultura porta sulla propria pelle e nella sua particolare forma. Forse è per questo che lartista scava dentro la vita degli oggetti stessi, nella loro più oscura e misconosciuta archeologia, così da scovare significati e valori altrimenti celati: ad esempio, per ritornare alle opere esposte, nella forma dei pani, così semplici, quotidiani, eppure nello stesso tempo complessi, modellati e dipinti con una vernice di catrame - questo dipingere le sculture, tipico del fare arte di Fontanelli, ha una doppia valenza: da una parte è un chiaro riferimento a Plinio, che cita luso del catrame come rivestimento nelle sculture antiche, dallaltra questo colore sporco e denso arricchisce come non mai loggetto di una dimensione tattile e visiva altrimenti negata. Ma, per quanto mi riguarda, e le due sculture esposte ne sono una valido esempio, laspetto che più mi intriga, ed intriga fortemente lartista, è il discorso propriamente antropologico del manufatto.


La Sacra Conversazione

Tempo fa ho avuto loccasione di poter leggere alcuni brani tratti da le confessioni, limportante opera scritta da SantAgostino tra il 397 e il 400. Di questo testo, una vera e propria rivelazione nella storia della teologia, ma non solo, SantAgostino si racconta, e racconta la vicenda che lo ha visto affrontare un lungo, complesso viaggio, un viaggio oltremodo difficile, che aveva per meta la scoperta della Verità. Sfogliando queste pagine, scopriamo che il santo, dopo aver cercato la Verità in luoghi sbagliati, la scopre soltanto in Dio, ed è proprio nellImmenso che linstancabile teologo continua a cercarla.

Questa ricerca chiarificatrice di Dio, praticata coraggiosamente da Agostino, se la leggiamo con attenzione, e se leggiamo ognuna di queste sue confessioni, noteremo come questo cammino di fede sia prossimo a quello intrapreso, a suo modo, da Romano Bertuzzi. Difatti, anche Romano è alla ricerca della Verità, e come il santo, sa che questa si nasconde solamente in Dio. In fondo, anche per lui vale la regola di SantAgostino, per cui tutto ha inizio, se vogliamo, da un stato di malessere e di inquietudine: non a caso si parla di un viaggio spirituale, che mira alla più totale e rigenerante purificazione. Superare questa inquietudine, significa tutto sommato ritornare alla quiete, e alla quiete, allequilibrio e allarmonia luomo ritorna soltanto se riscopre appieno il senso e il significato della Natura, poiché è proprio lì, nella Natura più incontaminata e segreta che si nasconde e si rivela la bellezza e la grandezza del Verbo. E allora, possiamo affermare senza ombra di dubbio che Romano Bertuzzi è tornato alla Natura, si è, come ebbe modo di dichiarare lui stesso, restituito alla terra. In fondo, il discorso legato alla terra è ben dentro la storia umana fin dagli albori dei tempi: Romano è così tornato a dialogare fittamente, in maniera sincera con il suo passato e le tradizioni dei propri avi, legate queste alla vita rurale delle zone dellAppennino piacentino. Ha avuto pertanto il coraggio e la lealtà di riscoprirsi, riscoprendo proprio quella cultura contadina in cui affondano le sue radici - visto che, appunto il termine cultura deriva dal latino coltivazione. Non a caso, ho parlato sopra di un percorso di fede: ed infatti i disegni, che lartista sta realizzando negli ultimi anni, sono la prova tangibile di questo viaggio, sono le sue confessioni. Lo stesso artista definisce queste opere su carta delle autentiche preghiere, perché per lui disegnare è un espediente per entrare in contatto con lOltre, con il Divino, così da instaurare con esso un proficuo dialogo. In un precedente testo, ho avuto modo di legare queste opere ad una frase celebre di Paul Klee: il ruolo dellarte non è di riprodurre il visibile. E quello di renderlo visibile. Difatti, Bertuzzi quando si concentra sul disegno, non si limita a riprodurre ciò che effettivamente è visibile, ma riesce a renderlo visibile, vale a dire riesce a rendere visibile linvisibile, ciò che è trascendente, spirituale. Grazie al dono della manualità, una manualità, la sua, degna dei più grandi maestri del passato, riesce ad estrapolare dalla Natura la sua essenza più invisibile e segreta, quella dimensione se vogliamo metafisica e alquanto sospesa. Per lui, quindi, disegnare altro non è se non un rito, un esercizio dal sapore sacro, un evento che ha in se il senso e il valore della liturgia: davanti al foglio di carta, spessa questa come una pergamena, Romano si concentra, dona al foglio bianco tutto ciò che possiede, quella sua instancabile bravura, come ho già accennato, ma anche il tempo, la pazienza, la consapevolezza, e grazie a ciò riesce a raffigurare, fin nelle più minime sfumature e nei dettagli, linvisibile spirituale, quella religiosità rivelatrice che si cela intensa quanto incontaminata proprio negli anfratti della Natura

Parallelamente ai disegni, in una ex ghiacciaia, Romano ha esposto un piccolo oggetto, simile a prima vista ad una reliquia. lopera in questione è un altro segno, anzi oserei dire una traccia di questa sacra conversazione: in una teca, lartista ha raccolto alcune piccole pietre e le ha meticolosamente disposte realizzando, a sua volta, un percorso irregolare... Il titolo dellopera in questione è Orto minerario. Romano ci spiega che questo è, in verità, un ricordo che lo lega alla sua infanzia, a quei semplici giochi che faceva, quando, da piccolo, trascorreva le giornate in campagna, a Forno di Coli, il piccolissimo paese immerso tra i monti del piacentino, dove lartista, ricordiamolo, è nato ed è cresciuto. Romano si divertiva a raccogliere pietre, quelle pietre che spesso sono protagoniste nei suoi evocativi disegni, e con queste, con questi sassi, ci giocava, andando a creare dei suggestivi paesaggi scultorei, monolitici.


La pittura dellUmiltà

tutto sommato, è la riscoperta di quelle emozioni che sono quasi sconosciute alluomo dei nostri giorni. E la rivendicazione di unopera che non mette in luce gli aspetti neri della nostra esistenza - visto che nellarte degli ultimi anni, si è sempre più parlato di provocazione, di dissacrazione e di denuncia - ma che ha lobbiettivo, appunto, di mostrarci le cose nella loro più intima poesia e bellezza. In fondo, come ho già avuto modo di scrivere, fare arte è prima di tutto avere il coraggio, e la sensibilità, ma anche la coerenza di portare avanti le ragioni di un proprio credo, e non avere paura di esternarlo, di combattere fino allultimo per difenderlo.

Ora, Claudio Parrini non è certo il tipo che si nasconde dietro complesse maschere, non ha paura di esprimere ciò che sente, non teme affatto di dichiarasi alla folla. Claudio lo sa bene: lui non può essere altro se non se stesso: ovverosia un pittore, un semplice quanto onesto pittore, il quale non si può certo sottrarsi dalla fame e dal piacere di dipingere, anzi, di pitturare. Anche se può apparire strano, ma cè differenza tra chi dipinge e chi pittura, così come tra un bravo pittore e un buon pittore. Proprio alcuni mesi fa, camminando davanti ad una vetrina di un robivecchi, come se ne trovano in città, anche se sempre più di rado, mi sono imbattuto davanti alla seguente frase: bei quadri a poco. Appena letta non ho potuto che pensare a Claudio, è ho per tanto modificato quella a in un da, proprio perché i quadri pitturati da questo artista sono tutto sommato dei bei quadri da poco, che potrebbero tranquillamente essere esposti in un negozio di modernariato, così come in una galleria, in un museo ma pure alle pareti di unosteria!. La sua è una pittura che non ha nessuna particolare pretesa, nè vuole essere originale e, soprattutto, non si vergogna di essere popolare. Una pittura normale, anzi, misera, lontana da mirabolanti effetti speciali. Non a caso, parlando di Claudio e della sua arte, non mi posso sottrarre da identificarla con un aggettivo, vale a dire umile: lumiltà francescana del quadro da poco, del quadro che scava nella miseria, appunto, del quadro basso, mancato, che, proprio nella sua proverbiale povertà, trova la sua compiutezza, quella bellezza rara e la sua, se vogliamo, solidità. E vero, nella propria disarmante semplicità la pittura di Claudio è solida, di quella solidità che appartiene alla grande storia della pittura, in maniera specifica lattenzione di Claudio è rivolta ad un gruppo di pittori, il più delle volte bistrattati da una certa elitè di critici, che hanno vissuto e lavorato nel primo novecento in Italia, rifuggendo dalle brame più vischiose dellavanguardia. Difatti, le tele di Parrini ricordano i quadri di Rosai, quelli dei giocatori di toppa, oppure di Semeghini, di Cascella, ma anche, se non soprattutto dei Chiaristi Lombardi (penso a Lilloni, alle nature morte di Angelo Del Bon). Ma pure a Carrà, che dopo aver rincorso manifesti e teorie, ha scelto di ritirarsi e di dedicare il proprio tempo a dipingere cascinali immersi nella nebbia o marine invernali Se ci pensiamo bene, la vicenda di Carrà è prossima a quella di Claudio: dopo molti anni trascorsi a lavorare come net-artista, alla fine del secolo scorso ha fatto una scelta difficile ma necessaria, quella cioè di riscoprirsi e di riscoprire la propria vocazione, ovverosia la pittura, e quindi di ritornare sui propri passi. Abbandonando così il computer, è tornato a dialogare con cavalletto, tavolozza e pennelli, in fondo come quando era un semplice ragazzo di provincia, pitturando in maniera del tutto naif e disincantata, senza scaltrezze. Proprio per questo, molti, di fronte alle opere di Claudio si trovano come smarriti, non sanno cosa pensare. Alcuni gridano allo scandalo, mentre altri rimangono ammutoliti, ma cè anche chi, per tagliare corto, vede in questi quadri un aspetto concettuale che, è ovvio, non esiste, anzi, queste opere sono lantitesi di ogni concettualizzazione. Claudio si limita solamente a pitturare le piccole cose che lo circondano, spesso, come fu per Morandi, la sua attenzione è di ritrarre quello che vede abitualmente dalla finestra del suo appartamento milanese. In poche parole, Parrini sfida la complessità delle ideologie per privilegiare la semplicità del gesto, la poesia che si nasconde nella normalità, quella più invisibile, bistrattata. Lo ha scritto lui stesso in una dichiarazione: preferisco essere solo, pronto a dipingere quadri secchi ed essenziali, dove rischiare tutto per tutto, senza la paura di sbagliare, anzi cercando lerrore, linciampo, per poi cadere nello sconosciuto, nel non visto. E il coraggio di sbagliare, il coraggio di urtare: sapete quante volte ho sentito dire che i quadretti pittati ad olio di Parrini sono per così dire fatti male, che sono trascurati, ignoranti“… è invece proprio per tutto questo, grazie a questa sua convinta e coraggiosa umiltà, in quella tavolozza sempre più scarna, nella pennellata sempre meno ricercata, che Parrini ha trovato la propria felicita.


Altro non sono che bizzarrie

Ho più volte definito la scultura di Franco Menicagli come una scultura povera, che alla pesantezza e alla ricchezza del marmo o del bronzo, preferisce la leggerezza e la precarietà del cartoncino. Onestamente, non so del perché Franco abbia scelto questo materiale. Forse, un vero motivo non cè, è stata una casualità, ma come delle volte accade, nel caso si può giungere a realizzare degli autentici capolavori. Comunque, la carta, così fragile, che basta un po di umidità per rovinarsi, è a sua volta un materiale affascinate, duttile, capace di assumere qualsiasi forma, basta sapergliela dare. In fondo, Franco, con questa tecnica dal sapore antico, ha dato prova della sua bravura, dando via via forma ad un particolare universo, popolato questo da bestie strane e mostri deformi. Il suo è un immaginario complesso, carico di rimandi ed affezioni, che prende ispirazione sia dai racconti mitologici, abitati da sfingi, sirene e ciclopi, ma anche dai recenti fatti di cronaca, legati alla clonazione e alle modifiche genetiche. Con tutto questo bagaglio, Franco ha iniziato così a dare unimmagine e un corpo, grazie al taglia e incolla di carte e scotch, a tutta una serie di improbabili quanto paradossali creature, per metà animali e per laltra macchine, come ad esempio carriarmati, aerei caccia o sottomarini nucleari. In fondo, è come se qualche scienziato avesse generato in laboratorio tutta una serie di bestie meccanizzate. La deformità, la mostruosità, la paura del diverso, ma anche (se non soprattutto) la bellezza della diversità: in fondo, tutto questo, e molto altro, si può leggere in questi grotteschi freaks. Ma torniamo allesposizione, perché il discorso di Franco ha preso unaltra interessante direzione: alle pareti sono appesi un gruppo di disegni realizzati a pennarello su carta. Anche in questo caso, la carta torna protagonista, anche se solo come supporto. Da circa due anni, parallelamente alle statue in cartone e, di recente, in ceramica, Franco si è sempre più dilettato con il disegno, a scarabocchiare. Questi capricci, a prima vista, sembrano tratti da qualche bestiario medievale, oppure a degli erbari, in cui venivano descritte, in dettagliate illustrazioni le piante più insolite quanto curiose. Nei suddetti disegni, lartista dà ancora una volta prova della sua dirompente immaginazione: da libero sfogo alle fantasie, ai sogni, ma anche ai miti e alle favole più visionarie. Opere, quelle di Menicagli che non potrebbero essere definite se non surreali, che però, ed è questa la loro caratteristica, non richiamano quelle celebri del surrealismo, che troviamo abitualmente sui libri di storia dellarte, bensì ci rimandano ad opere meno note, per esempio a quelle realizzate da alcuni surrealisti italiani che, durante gli anni settanta del novecento, ebbero un loro riscatto culturale. Lopera di questi autori è legata principalmente alle province della pianura padana, come quella di Gustavo Foppiani. Non a caso, alcuni dei tanti disegni eseguiti da Franco ricordano da vicino le tavole fantasiose del Foppiani, ed è bello riconoscere a Menicagli proprio questo, cioè quello di essere un attento surrealista dedito a creare paradossali metamorfosi, non troppo dissimili da quelle descritte a loro tempo sia da Ovidio che da Kafka.


La caduta degli Dei

Nel lontano 1618, il Guercino dipinse una delle sue opere più celebri, forse la più celebre, se non altro da un punto di vista meramente filosofico. Questa tela raffigura una coppia di pastori intenti ad osservare un teschio, esposto alla fame di mosche e topi, che giace inerte su di un muretto in rovina. Sotto di esso, uniscrizione incisa, scritta in latino recita la seguente frase: et in Arcadia ego. Questo tema, ripreso anni dopo anche da Poussin, non è altro che un memento mori, perchè, se noi traduciamo la suddetta frase, essa suonerebbe più o meno così: io sono presente anche in Arcadia. Quellio altro non è se non la morte, la quale si è dichiarata attraverso la presenza del cranio... Si potrebbe, quindi, descrivere allinterno di questa tradizione pure il teschio che Massimo Giannoni ha dipinto di recente in una serie di quadri. In fondo, Massimo non si è voluto sottrarre da un argomento così complesso, ovvero quello sulla fugacità del tempo e della morte come fine ineluttabile. Un memento mori, o sarebbe meglio dire una vanitas, come quella, per fare un esempio, di Philippe De Champaigne, in cui lidea della fine terrena è suggerita da un cranio lucido, quasi dorato, affiancato da una clessidra (il tempo che inganna e che trascorre inesorabile) e da un fiore reciso, destinato quindi a sfiorire Il teschio dipinto da Massimo ricorda molto quello del Guercino, grazie soprattutto alla profonda manualità e alle suggestioni coloristiche tipiche del suo fare arte. Perché lartista ha estrapolato da questo soggetto laspetto più ispirato, in quel cranio Massimo ci ha visto lindeterminazione delluomo moderno: appoggiato su di un antico mobile, questo solitario cranio diventa una sorta di meditazione sullessere e sullapparire, alla stregua di letture intrise di decadenza, di bellezza ed eroismo. Ho deciso, pertanto, di intitolare la stanza di Massimo Giannoni la caduta degli Dei, un titolo, questo che non solo si riferisce alla vanitas qui esposta, ma in un certo senso ripercorre la sua intera ricerca pittorica. Perché nei quadri di Massimo questa suggestiva decadenza è sempre stata presente. In fondo, più volte ho detto che le tele di questo artista sono come abitate da fantasmi: penso alla serie di quadri con protagoniste delle biciclette, abbandonate agli angoli delle vie, e sfigurate, queste, da una luce che ne deforma le ombre, oppure, alle librerie, invase dal vuoto della penombra e dalla presenza vetusta dei libri, accatastati su tavoli o negli scaffali Nelle opere appena citate, la figura umana è quasi assente, e se è presente, essa appare, appunto, come un etereo fantasma, come nelle fugaci ombre nel ciclo dei lavori sulle piazze. Ma ciò che emerge in tutti i suoi dipinti, è questo sacrosanto bisogno, la necessità appunto di un artista che dipinge, utilizzando, esasperando in certi casi, la materia del colore, calda, che gronda sulla tela, che si stratifica in cumuli pastosi e densi, memori di certe belle opere di Rembrandt. Ma la pittura di Massimo non è soltanto corpo: ed è per questo che alla materia grumosa, solida e pesante contrappone, spesso, la leggerezza e la trasparenza acquerellata del colore, così da creare intense quanto velate atmosfere, come nel caso appunto della suddetta vanitas, in quella che per lartista è una fuga nel nostalgicamente romantico.


Un luogo, ormai da tempo sconsacrato, è stato così riconsacrato, grazie alle confessioni di un gruppo di emeriti silenziosi.



Raffaello Becucci